Tra il 2018 e il 2019, 3508 economisti statunitensi hanno sottoscritto l’ "Economists' Statement on Carbon Dividends", la dichiarazione sottoscritta da più economisti in tutta la storia americana, a favore di una carbon tax. Mai prima d’ora, un numero così alto di accademici ha volontariamente firmato per richiedere di essere tassato. Eppure, nonostante la loro popolarità tra i teorici, le tasse sulle emissioni di gas serra sono uno degli strumenti di climate policy meno utilizzati nella pratica. Nel 2016, 176 paesi hanno fissato degli obiettivi da raggiungere nel settore delle rinnovabili, ma solo 18 paesi (e due province canadesi) hanno discusso o applicato una tassa sulle emissioni di CO2 (fonti: World Bank e REN21).
Ma abbiamo veramente bisogno di una carbon tax? E come implementarne senza che venga rigettata dai cittadini?
La tassa sulle emissioni carboniche, o carbon tax, è una strategia “push”, cioè un meccanismo restrittivo che funziona imponendo a individui e imprese un costo per le emissioni da loro prodotte.
Rispetto a un sistema cap-and-trade, come l’Emission Trading System in atto in Europa, la tassa sulle emissioni di CO2 presenta alcune caratteristiche vantaggiose. Prima fra tutti, i sistemi cap-and-trade sono più complessi. Comportano l’attribuzione di “permessi di inquinare” alle imprese, che vincolano la quantità di emissioni che un’azienda può produrre al di sotto di un certo limite. Gli enti che vogliono emettere più della quantità consentita devono comprare permessi aggiuntivi sul mercato, ottenendoli da altri partecipanti che producono meno del loro importo massimo e vendono il loro diritto di inquinare per profitto. Tuttavia, avendo bisogno di un ente centralizzato che monitori lo scambio di quote tra aziende, un sistema cap-and-trade comporta costi amministrativi e burocratici molto maggiori rispetto a una semplice tassa. Inoltre, non comprende i singoli consumatori, che non possono essere raggiunti dalla rete di scambio.
Invece di tassare, molti governi preferiscono incentivare usando misure “pull”, come sussidi e investimenti nel settore delle rinnovabili e altre fonti energetiche a basso impatto ambientale.
Negli ultimi cinque anni, l’ammontare degli investimenti mondiali ha superato la soglia dei $ 300 miliardi (fonte: Bloomberg); Cina, Stati Uniti e Europa guidano la classifica degli investitori (la prima capitalizzando circa un terzo del totale dell'investimento globale). Tuttavia, investimenti e sussidi, da soli, non garantiscono la solidità di una climate change policy lungimirante. Infatti, possono fluttuare in modo significativo a seguito di cambiamenti nelle politiche nazionali, come è successo nel 2018 quando una riduzione dell'investimento cinese nel mercato dell’energia solare ha impattato negativamente il settore a livello mondiale, con ripercussioni anche per altre fonti energetiche. Inoltre, non coinvolgono tutta la popolazione, che quindi non viene sensibilizzata a ridurre la propria impronta energetica.
La carbon tax è tra gli strumenti più efficaci per combattere il cambiamento climatico, ma la paura dell’opinione pubblica e l’eco dei gilets jauns in Francia, nonché la sottile e potente azioni delle lobby, la tiene lontana dai dibattiti politici. Alcuni risultati promettenti vengono dalla ricerca di Carattini, Carvalho e Fankhauser che hanno mostrato come alcuni accorgimenti nello sviluppo di una carbon tax possano contribuire enormemente alla sua accettazione pubblica. In particolare, dal loro articolo emerge come, per suscitare un maggior consenso, sia necessario che la carbon tax sia trasparente e che i proventi vengano riutilizzati per supportare ulteriolmente la lotta al cambiamento climatico. Non ci resta che aspettare, insomma, e vedere come andrà l’implementazione nei prossimi paesi (Singapore, Canada). In Italia, per ora, ancora non se ne discute.
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