Questo termine fa riferimento all'accaparramento di determinati territori da parte di poche potenze economiche per avviare processi di sviluppo agricolo, solitamente nei paesi in via di sviluppo/emergenti. A soccombere dinanzi al land grabbing sono le popolazioni locali che vivono nei villaggi rurali e che perdono così la loro principale fonte di sostentamento. Questa forma di sfruttamento è particolarmente diffusa in Africa, Asia e America Latina. [1]
Considerando che non tutti i terreni possono essere coltivati (perché non più fertili, perché hanno subito un processo di desertificazione o perché sono occupati da grandi foreste che “tolgono” spazio all’agricoltura), nasce una folle “fame di terra” e di conseguenza una corsa all’accaparramento negli Stati più poveri. Tra il 2007 e il 2008 inizia a scattare l’allarme in alcuni paesi a causa delle politiche di alcuni paesi grandi importatori di materie prime per l’agricoltura: quelli del Golfo Persico, come l’Arabia Saudita, ma anche la Corea del Sud e il Giappone.
Inoltre, già dal 2000 si era sviluppato il business dell’agrocarburanti, cioè dei carburanti derivati dalla trasformazione di prodotti agricoli (es. etanolo da canna da zucchero), che ha contribuito molto al dilagare del land grabbing.
L’unico organismo internazionale ad aver denunciato l’accaparramento di terre è stata la FAO (Food and Agriculture Organization) che ha approvato nel maggio 2012 le “linee guida per i regimi fondiari e l’accesso alle risorse ittiche e forestali” varate dalla Commissione sulla sicurezza alimentare, primo passo a livello legislativo contro questa nuova forma di colonialismo. [2]
Dunque, la domanda che ci si pone è: si può frenare il land grabbing? Secondo alcuni studi questo fenomeno tenderà a diminuire nel futuro grazie all’implementazione della coltivazione idroponica [3] che è una tecnica agricola molto recente e complessa che richiede ingenti capitali.
Per ora chi può investire sono i paesi molto ricchi come gli Emirati Arabi, che ad oggi si stima importino l’80% degli ortaggi e che quindi stanno investendo molto in questa tecnica di coltivazione. E’ sorta proprio a Dubai (Badia Farms) la più vasta fattoria verticale del mondo - o fattoria idroponica, in termini tecnici - con una superficie di 12 mila metri quadrati. [4]
I prodotti coltivati in queste fattorie possono aiutare dunque il paese a rendersi più autonomo dalle importazioni, riducendo il consumo di acqua necessaria per le coltivazioni e diminuendo le emissioni di carbonio legate ai trasporti per l’import degli alimenti. Insomma, la sua diffusione darebbe inizio a un circolo virtuoso e sostenibile non indifferente, con ricadute positive sia ambientali che sociali. Non male questo agri-tech, no?
Fonti:
[2] Voluntary Guidelines on Tenure | Governance of Tenure | Food and Agriculture Organization of the United Nations (fao.org)
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